mercoledì 23 dicembre 2015

Questione di fili

Lo crederesti che quel filo, ciò che lega  ogni madre al figlio e dunque mi teneva legata a te e grazie al qualche tu potevi darmi tutto in realtà  non si è mai spezzato? È incredibile lo so ma il nostro filo non si spezza, è diventato fine fine, finissimo, direi di nylon, anzi fluoro carbon, finissimo e con una elasticità che tende all'infinito, potrei andare in California, Milano, nella stanza vicino la tua  ma quello rimane lì saldo,resistente, come tutte le tue critiche per cui io mi arrabbio sempre, come la tua forza che con gli anni mi hai trasmesso o con le tue passioni che per osmosi sono diventate anche le mie, possiamo vedere questo filo come un nostro scambio di parole, emozioni, paure che solo noi possiamo sentire. Puoi trovarci addirittura qualche nodo vicino, ma noi siamo resistenti, a prova di ogni pettine. È diventato così fine perché le distanze si sono dilatate e quindi è diventato così sottile quasi impercettibile ma noi sappiamo che c'è. È un'eccezionale questione fisica, di corpi che sono destinati a diversi posti e a diverse strade ma rimangono sempre legati, ma non soltanto i corpi, anche il cuore, testa e tanti altri organi.  Eppure di spezzarsi proprio non ci pensa. Sai che ti dico? Tutt'al più li faremo fuori tutti: Gli inciampati sopra il nostro filo.


"Amore amore amore, è quello che so dire ma tu mi capirai" 
La prima cosa bella, quella che sarai sempre tu, auguri Momo, il tuo estremo del filo.

lunedì 5 ottobre 2015

è un tipo

"Allora, Martina, come ti sembra lui? è bello?"- "Mah." risponde lei sfogliando l'intero album delle foto in cui è taggato su Facebook, "Lui è bello? Io direi un tipo".
 Quindi  poi nemmeno tanto bello e faccio un respiro di sollievo.

 Però è uno di quei ragazzi di cui si dice: non so ha qualcosa, ha una faccia interessante, è un tipo.

Con questo è un tipo, ipotizziamo un sacco di qualità che rimangono ambigue, speciali che sono inafferrabili, eleganti. tutti insieme questi aggettivi dovrebbero essere per me bellezza ma nella sostanza è di più. Intanto ha fatto una vittima, pensavo. Perché lui è un tipo che fa molte vittime o almeno non tantissime ma  quanto basta per creare un rapporto di inferiorità e dipendenza, perché almeno metà delle ragazze che abitano nel mio quartiere lo hanno frequentato. Io cercato sempre di mantenermi a debita distanza da lui, ma un pomeriggio per caso mi è capitato di parlarci per caso, ed eccoci qua. Ma io ho capito com'è lui, io sono stata scelta perché abbiamo un sentimento alla pari, una volta ho perfino avuto la sensazione che lui fosse stato la vittima anche se è stato un errore.

Lui mi sorrideva sempre e forse come per dirmi, no cara non preoccuparti tu non sei come loro, ti tratterò meglio, sei quella giusta, ma non si è mai la giusta per lui. Io ero comunque sempre molto attenta e in tensione, sapevo di essere diversa, a mano a mano mi sono rilassata, e poi dopo qualche mese un giorno ha smesso di cercarmi, aveva chiuso questa relazione che forse gli sembrava appunto troppo complessa per essere portata avanti ed ha detto che dovevamo farlo proprio perché ci amavamo (?).
 "Ma come non capisci?" diceva lui, con gli occhi sgranati dallo stupore.
Io dicevo, abbassando la testa: sì, sì certo che capisco. Ma non avevo capito niente, ci soffrì anche parecchio, mi vergognavo di non capire affatto e facevo finta di capire.

Lui era riuscito a mettere molta ambiguità in questa separazione che io non avevo ancora capito bene se stavamo insieme oppure eravamo sul punto di tornarci. Lui era nel pieno delle sue facoltà mentali ed emotive, io invece ero la vittima. In pratica collezionare vittime è il suo lavoro.
Gli piaceva proprio mandare i messaggini, farsi invitare a cena a casa, gli piaceva fare lo splendido andarle a prendere in moto queste cose qua, fatta una certa dice che bisogna lasciarsi ma sente già tanta nostalgia. sono tutti gradi di difficoltà nelle sue settimane faticose di lavoro di seduzione.
Per quanto mi riguarda ne sto ancora uscendo, e allora per cercare conferma dalle mie amiche cerco di farmi sentire dire che in realtà è brutto, ma loro puntualmente mi rispondono che è un tipo.

L'altro giorno gli ho scritto un messaggio molto poco opportuno i cui gli ho detto, ho chiesto di te, se fossi bello o brutto, tutte mi rispondono che sei un tipo, quindi non atteggiarti.
ps: non riesco a smettere di pensarti.

Ogni tanto mi scrive che mi pensa e che ha nostalgia dei nostri pomeriggi insieme ma amarsi è qualcosa di concreto, gli rispondo in modo freddo e lui invece di essere "caldo" fa altrettanto. Non mi piace e non lo sopporto più, e voglio combatterlo.

"Non gli scriverò niente più" era come se lo stessi lasciando ma in realtà lui mi aveva già lasciato.
Lui mi ha scritto qualche settimana dopo, chiedendomi cosa facessi, e l'ho telefonato urlandogli che non avevo più bisogno di vederlo, e lui mi ha risposto con OK, scusami, ed ha attaccato.

Ogni tanto parliamo di lui al tavolo quando sono con le mie amiche che abitano nel mio stesso quartiere, e si crea una sorta di silenzio per qualche minuto, ci sentiamo tutte un po' complici in un mondo che non ci vuole e le ragazze che dicono di averci un feeling sono quelle che ci rimangono peggio. Ma forse se lo meritano anche.
Almeno noi sedute al tavolo stiamo bene, sopratutto quando qualcuna subentra nel discorso magari sentendo da un altro tavolo e inconsapevole del nostro dolore segreto, quando lo vede sbucare con la moto, senza casco, pronto per fuggire via in qualche altro quartiere, dice: certo che quel ragazzo... non so, è un tipo.

venerdì 7 agosto 2015

Se tu fossi un passeggero al posto 5D

Se tu fossi un passeggero incontrato per caso ad un metro di distanza, tu staresti con un libro, non sapresti se leggerlo o meno perché saresti molto stanco , ogni tanto tra una riga e l’altra sbirceresti le mie labbra, io parlerei al telefono e ricambierei lo sguardo, diretto verso le tue mani.

Non mi stancherei di guardarti, e tu neppure, studierei ogni tuo lineamento per poterlo imparare sempre meglio, per poter definirlo una volta chiusi gli occhi per dormire un po’.
 Incrocerei le gambe e sfiorerei per caso le tue, ti vedrei guardare fuori e quando mi guarderesti.
invece di stare sveglia per controllare la valigia, starei svelgia per guardarti, ad un certo punto cambieresti posto e spingeresti il corpo verso la mia mano ma lentamente, come se fosse un attrito d’amore distratto.
Forse ad un tratto avrei un cedimento da me impercettibile  e infilerei la faccia all’interno del tuo gomito, allora tu mi diresti: "Se vuoi puoi di nuovo addormentarti!".
 Sarebbe un viaggio infinitamente lungo e noi non vorremmo più andare dove stiamo andando, dove prima eravamo così decisi di voler andare, le nostre percezioni di ciò che vogliamo vacillerebbero e saremmo disposti ad essere altre persone.   Allora tu con la tenerezza e l’accortezza che non hanno di solito gli estranei guarderesti per me le valigie, e io forse russerei, o peggio ti sbaverei addosso, non mi diresti niente, sarebbe la prima vera prova d’amore.
scenderemmo dal treno, una sigaretta: "Devo andare, mi aspettano.."  ti direi di non andartene e infine non andresti.

Allora  decideremmo di non andare per la nostra strada e poi risentire la canzone di De Andrè delle passanti e scordarci tra 4 o 5 mesi,  ma andremmo a perderci in alcuni vicoli di quel posto che abbiamo deciso di fermarci e tutti ci cercherebbero certo, ma essendoci noi stessi persi non ci troverebbero mai.
Poi in un vicolo tra i bar, mi confideresti tra tante persone, perché non conosceresti ancora ben il mio viso, e diresti nella follia dell’ubriachezza di amarmi,  credendo che quell’altra a cui appena preso la mano sia io, quindi andrebbe tutto bene perché io sparirei all’improvviso ferita dal tuo fare, sarebbe tanto diversa da una lunga storia d’amore? 


Sarebbe stato bello andare in questo labirinto di vicoli, entrambi feriti, io perché tu mi avresti scambiata per un'altra e tu perché mi avresti perso e mai più trovata, e invece sei sceso a Roma termini, forse avevi qualche coincidenza, di sicuro quella del nostro incontro, non lo era.

sabato 6 giugno 2015

Il temporale delle ciliegie

Aveva appena smesso di piovere, appena ricominciato, appena smesso. Mio padre indicava questa condizione meteorologica come il temporale delle ciliegie.
La giornata sembrava proseguire così, sembrava seguire molto attentamente quella che era la percezione che avevo in quella giornata del mio umore.
Il giorno in cui vedi un manifesto viola posto sotto il mio condominio, era una giornata da temporale delle ciliegie,  il manifesto non mi lasciò indifferente né basita o interdetta.
 Mi fermai come avrebbe fatto qualsiasi persona e mi soffermai prima sui quali santi fossero stati messi sul manifesto e poi sulle lettere in grassetto e lessi quel nome lì, quello che ogni volta  che veniva nominato mi faceva alzare gli occhi al cielo e sbuffare, quello che veniva sempre nelle riunioni di condominio, perché lei aveva sempre qualcosa di cui lamentarsi, quello, che non avevo  mai sentito e che di un tratto era diventato una costante nella mia vita, in termine negativo ovviamente, era morta Ernesta Pessina.
Quello a cui pensai leggendo quel nome è che siamo tutti un po' preparati alla morte di un amico,  e lo siamo per il semplice fatto che abbiamo tutti paura della perdita di qualcosa che amiamo, perché la paura intercetta quello che a noi interessa. Ci pensiamo e ogni tanto, che quella persona tanto cara potrebbe un giorno andarsene, e quindi riusciamo ad immaginare il nostro dolore.
Alla morte di un nemico nessuno ci prepara, non ci prepariamo neanche noi stessi, si il nostro nemico vorremmo vederlo morto o se non morto messo comunque molto male, ma se poi morisse veramente?  Il vuoto che lascia un nemico è enorme, scomparendo lui vediamo scomparire la nostra cattiveria riflessa, riconoscere quindi che possiamo essere veramente pessimi e di bassa categoria. Il nostro nemico è l'unico quindi che riconosciamo come specchio per i nostri errori e fallimenti e lui ci dice chi siamo, senza troppe ipocrisie. La signora Pessina viveva nel mio palazzo, e si, la odiavo, ed è stata la mia unica grande nemica, era lei che mi augurava di diventare una vecchia ciabatta, era lei che mi diceva di spostarmi urlandomi contro "è llliev't", quella che faceva finta di non conoscere il mio nome, che non salutava in ascensore, a farmi causa per le mie feste saltuarie, a trasmettermi tutto il suo astio che aveva accumulato in 40 anni di solitudine verso l'umanità.  Neanche i gatti aveva, non era buona a prendersi cura di niente, era una donna arida e rendeva arido tutto ciò che le stava attorno.  Eppure furono tante le sensazioni che provai leggendo quel nome sul manifesto  fuorché contentezza. Non la andai certo a trovare, né a fare le condoglianze ai parenti.
Tutt'ora però penso che fosse una donna davvero malvagia, per cui mi mancherà tantissimo.


domenica 8 febbraio 2015

Doveva essere l'estate dell'88 o dell'89

Doveva essere l'estate dell' 88 o dell'89 non ricordo con certezza, ed era per me difficile distogliere gli occhi dai libri che mi assegnavano come lettura estiva,io mi piazzavo sotto l'ombrellone, lì potevo concentrarmi perché sembrava che il tempo passasse più velocemente e mi rendeva meno smaniosa di contare le ore che mancavano per fare il successivo bagno.
C'era questo mito nella mia famiglia che si dovevano aspettare ben due ore, dopo aver mangiato, perché  il padre di mia mamma, ovvero mio nonno, era molto di un'indigestione, a mare.

Mia Madre mi ha sempre detto che era morto perché aveva mangiato tanto, e si era tuffato incurante a mare.
Lo raccontava così, senza emozione, senza stupore, senza nessuna punta di nostalgia, un po' come parlava di tutte le cose che avevano fatto parte della sua vita.
Quelle giornate mi sembravano una lunghissima prigionia, che dovevo scontare guardando, barche, onde, bagnini ben poco attraenti, donne che il solo pensiero di passare giornate intere a non fare nulla, e a stare distese su una sdraio, le mandava sull'orlo di una crisi di nervi, altre donne che invece si occupavano in modo morboso dei propri figli spargendo quintali di crema protettiva, o distribuendo quantità assurde di frittate di maccheroni ai figli con evidenti problemi di sovrappeso.
Ma la cosa peggiore, erano quelli che giocavano a racchettoni che sembravano così felici, di fare un gioco così stupido, che mi facevano innervosire tanto, chiudere il libro, ed andare a fare una passeggiata fino alla fine della spiaggia, per poi ritornare sotto l'ombrellone.
L'estate cominciava a pesarmi, era questa la verità e se prima avevo pensato che l'interruzione della vita quotidiana avrebbe portato ad una diversa considerazione del tempo e della sua preziosità, del doverlo vivere intensamente per poter trascorrerlo nel fare ciò che mi sembrava più giusto, più bello da fare, mi sbagliavo, io mi annoiavo.
Un giorno, vidi che vicino la strada che portava al lido, un lungo viale pieno di palazzi dal colore inquietantemente uguale, dove sembrava che la fantasia fosse davvero mancata al costruttore, architetto o dove la gente più di tanto non se ne importava perché erano delle case vacanza, lì lungo il viale c'era un garage aperto, dove c'era scritto vendita di libri usati.

Nulla poteva avere maggiore richiamo per i miei occhi, in quel periodo in cui pur di ingannare il tempo, sarei finita a leggere, vangelo, bibbia, istruzioni d'uso per la crema solare e menù interi dei ristoranti.
Dissi a mia madre che sarei andata da sola in spiaggia, e che mi sarei fermata un attimo per cercare qualche libro.
Fu proprio lì che conobbi Alberto, un uomo sulla sessantina, un po' malridotto, capelli bianchi, leggera stempiatura con degli occhiali a fondo di bottiglia, che risaltavano ancora di più il colore chiaro degli occhi, una camicia a maniche lunghe a quadrettoni curiosamente fuori stagione, pantaloni lunghi e ciabatte. Fui piacevolmente sorpresa, una volta entrata nel garage dal contrasto tra il  suo disordine nel vestirsi e l'ordine maniacale del garage e modo in cui erano disposti i libri, un box rivestito di collezioni di fumetti, romanzi rosa, gialli, collane anni 70 di libri ormai introvabili. Alcuni pieni di polvere, altri ben tenuti in confezioni fatte di cellophane.
Fui molto contenta di trovare qualcuno che avesse un'età così diversa dalla mia con cui condividere  una stessa passione. Comprai due libri, poi tornai in spiaggia, e comincia in modo inspiegabile ad essere più felice, giorno per giorno.

Tornavo almeno due volte la settimana, e lui sapeva sempre più o meno l'orario e mi faceva trovare le mie caramelle preferite le elah, al caramello e al mou, sembravano un po' caramelle per vecchi ma non ho mai detto di essere stata troppo giovane dentro anche quando ero giovane fuori.

Lui era un vero e proprio maniaco della carta stampata, si trovava a vivere in un appartamento piccolo, senza mai essersi sposato, dopo aver amato solo una persona nella sua vita, che inevitabilmente, così almeno diceva, si era lasciato scappare.
Era stato gentilmente invitato a traslocare dall'appartamento con i suoi preziosi, polverosi beni, al piano inferiore della casa. Era magico quel garage, sembrava di entrare in un'altra dimensione, e tutto quello mi faceva dimenticare del tempo che trascorreva durante quell'estate mi rendeva felice.
 Alberto un giorno mi raccontò la sua storia, dicendo di essere stato tipografo per decenni, aveva tanto amato il suo lavoro: Ciò che lo rendeva più felice la mattina dopo il caffè era sentire l'odore dell'inchiostro, la carta che scorreva sotto le sue dita come un vestito, le colle, i caratteri. sceglieva tutto meticolosamente. Mi sedevo e per ore sulla poltroncina, con un'atmosfera degna per una tana accogliente ascoltavo le sue parole.
Poi mi spiegò che le cose erano andate come erano andate, l'attività era stata venduta, e forse al posto della tipografia ci avevano messo un fabbrica, che poi successivamente fu trasformato in un centro commerciale.
Della sua tipografia, forse erano rimasti i cimeli, e a lui era rimasto un tumore ai polmoni, che da anni covava, ma in quel momento io non potevo saperlo, lo scoprì più tardi, quando la portiera un giorno di autunno in cui mi ero fatta forza e mi ero decisa di andarlo a trovare mi raccontò tutto.
Alberto era di Minori, aveva passato lì la sua infanzia, in gioventù era andato a vivere in una città più grande, nulla di più poteva spaesarlo, l'assenza del mare e la presenza imponente di una città troppo grande per lui, lo aveva fatto costruire poi un suo micromondo di cui lui ne aveva piena padronanza, conosceva parola per parola di quei libri, formato per formato, ogni lettera una sua storia, ogni parola un suo significato, lui la sapeva.
 La sua morte non suscitò in me,  tristezza, rabbia o indifferenza, sembravo un po' mia madre, quando raccontava della morte di suo padre, quando io parlavo di Alberto.

Solo forse, c'è un ricordo che mi riporta maggiore tristezza che non racconto mai a nessuno.
Un giorno Alberto, aveva deciso che doveva insegnarmi a fare le delizie al limone, passammo alcune ore per cercare di far coordinare la sua impazienza, ansia e meticolosità nella preparazione dei dolci e la mia poca dimestichezza e goffaggine in cucina, poi però il risultato fu piuttosto soddisfacente.
Assaggiai quelle delizie, le portai in spiaggia e mia mamma disse che erano buone, ma che era comunque preoccupata che frequentassi quell'uomo anziano, che sembrava essersene andato con la testa tra la cucina ed i suoi libri, ed io ridevo e scuotevo la testa, quella è l'invidia delle persone quando scoprono che tra due anime c'è qualcosa di bello che sia diverso da un banale amore, o da una storia di sesso.

Era entrato così per caso, come succede un po' a tutti, fu mio amico solo per quell'estate, forse per me fu già tanto. L'uomo che amava libri e poi è morto di libri lo trovo spesso con me guardando qualche copertina dei libri comprati in quell'estate, che spolvero per caso nell'ingresso di casa mia.
Ogni tanto mi metto ad annusare qualche copertina o la colla e la carta di un libro nuovo. Anche quando provo a preparare le delizie a limone, chiudo gli occhi apro le narici, e annuso, ma non sono le stesse di quell'estate dell'89.
Anche così, per via di cose e piccoli gesti quotidiani, si entra per restare nella vita di qualcuno.

domenica 18 gennaio 2015

La domenica quando si è bambini

Ci sono volute le campane delle 10:37, che non so perché partono con 7 minuti di ritardo, per ricordarmi che oggi fosse domenica.

La domenica per me è una giornata pessima e mi viene sempre da fare il confronto quando la passavo con i miei genitori da bambina.
Quando ero piccola uscivo con mamma e papà, mi tenevano la mano, dovevo solo pensare a guardare avanti a camminare, e fare finta di ascoltare  quello che dicevano, ma soprattutto  a mangiare la pizzetta come aperitivo, era bello pensare che  a tutto il resto ci pensavano loro, e del resto avevano ben poco a cui pensare: Prendere la macchina, scegliere una trattoria, e la giornata era  compiuta.
"Per lei fate due maccheroni al sugo" c'era  il vino della casa, la gente felice che con disinvoltura mangiava anche il tavolo, e bambini che correvano per tutto il locale, qualche volta mi alzavo anche io ma solo per vedere la tristezza dei pesci all'interno dell'acquario.
In realtà non mi facevano tanta tristezza, pensavo che stessero bene lì rispetto all'essere inghiottiti dall'oceano e dalle sue mille intemperie.
Il cameriere poi, si avvicinò alla fine del pranzo e ci disse che  che per dolce c'era  il creme caramel, mio padre allora basito quasi spaventato dalla vita, chiese ma che cos'è sto creme caramel? il Cameriere ripeté  lentamente, C-r-e-m-e C-a-r-a-m-e-l-
orgoglioso, con il tovagliolo sul braccio, e le scarpe di chi ha camminato per tutta la giornata avanti e indietro per la trattoria  e ci disse  che era il piatto della rivoluzione delle papille gustative, perché si crede che la roba francese sia sempre una rivoluzione.

Mio padre disse che era buono il sorbetto a limone e io allora mi presi  il sorbetto al limone, anche se a me faceva cagare il sorbetto a limone.

Dopo la pausa pranzo andammo a guardare le barche sul molo, io non ho mai avuto una barca ma l'ho sempre voluta, mio padre le odia le barche, a mia mamma è tutto indifferente, dopo la passeggiata finalmente tornammo a casa, e io non avevo  fatto i compiti come sempre.

 Questa era la vita che a noi gradualmente c'è parsa di una noia indescrivibile e l'entusiasmo familiare si ridusse di anno in anno e quindi uscimmo sempre di meno, fino a perdere completamente l'usanza di mangiare fuori.
Io li  rivoglio i pomeriggi, e le mattine la tenerezza che sembrava indice di debolezza, rivoglio i pranzi in trattoria, sia vicino al mare che a  Gragnano, sia con la carne che con il pesce che non mangiavo e lasciavo nel piatto.
Rivoglio la spensieratezza che sembrava fosse gratuita, e che adesso la paghiamo e non la otteniamo del tutto.
Arriva  un momento in cui smetti di crescere, ed inizi ad invecchiare, io l'ho capito dalle domeniche.

La domenica pomeriggio adesso è terribile, sia a Milano che a Pompei.
  Il tempo si dilata,tutto si fa triste e si avvolge nel torpore tutto è baratro di nulla, le case sembrano ovattate e le orecchie si allontanano dal mondo, i tossici qua sotto si scatenano, perché non sono al SERT e non sanno che cazzo fare, di norma non lo sanno anche durante gli altri giorni della settimana, ma almeno c'è qualcuno sobrio che li ascolta.
Se prendi l'autostrada, l'unico che ti somiglia e ti capisce è quello del pedaggio, che non ti guarda neanche ma con aria insofferente prende la carta o i soldi, ha gli occhi puntanti sullo schermo di qualche film porno o soap opera e sospira, tu lo saluti, lui non ti caga.

 A casa nel pomeriggio se i letti sono disfatti c'è da temere l'assenza di speranza che verranno fatti , ti scocci di rifarlo ma se non lo rifai  il letto ti imprigiona in una gabbia di malessere.
 Ti guardi la partita perché si deve guardare non perché lo vuoi e se il Napoli perde ti deprimi, ma non sai neanche bene perché.
Se vai a messa quando  il prete appare la prima cosa che ti segnala è il letto che non hai fatto, non nel senso che lo dice, ma nel senso che tu lo sai che quella predica che sta facendo è per quel letto, che hai lasciato disfatto nelle mani degli acari che sguazzano e si rotolano tra le nivee lenzuola di cotone.

Al buio nel letto il lunedì, invece, è  come un ritorno alla vita,  nel lunedì vero si dischiudono rivoli di gioia, questo perché il non fare niente non sembra ma ci crea un senso di inadeguatezza al mondo.

Mentre ti prepari per uscire, la mattina per continuare a   svolgere la tua vita, ti accorgi che non tutto è  svanito perché affiora il pensiero che ti dice "Mo tra sei giorni è di nuovo domenica".